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venerdì 6 settembre 2019

l giuramento "sobrio" dei giallo-rossi: Costa che batte i tacchi, Bonafede con la mano sul cuore. E Conte strizza l'occhio a Di Maio
05 SETTEMBRE 2019
Al Quirinale molti "vincitori" del nuovo corso politico. Il più emozionato è Patuanelli, neo ministro dello Sviluppo. E lo stile è molto diverso dal lunapark dell'era gialloverde 
DI CONCETTO VECCHIO

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L'immagine simbolo è Giuseppe Conte che strizza l'occhio a Luigi Di Maio, quando il capo politico del M5s giura da ministro degli Esteri. L'8 agosto, quando Matteo Salvini aprì la crisi sembravano entrambi morti politicamente e invece eccoli lì, risorti al termine della più incredibile vicenda politica della nostra storia repubblicana.

Di Maio è uno dei vincitori, e si vede. Mantiene un ministero pesante e con Riccardo Fraccaro ha messo a palazzo Chigi un uomo di sua stretta fiducia. Infatti Di Maio non smette un minuto di ridere.

Accanto a lui il prefetto Lamorgese, neoministra dell'Interno al Quirinale: lei gli parla lungamente e Di Maio sempre annuisce, sempre ridendo.

L'altro trionfatore qui nel salone delle Feste al Quirinale è Giuseppe Conte, che sprizza felicità da tutti i pori.

Il terzo vincitore è Dario Franceschini, il demiurgo dell'accordo, tutti lo omaggiano rispettosi e nella foto ricordo non casualmente finisce accanto al presidente Mattarella.

Altre immagini: Bonafede che giura con la mano sul cuore, Costa che davanti a Mattarella batte i tacchi, Patuanelli emozionatissimo, Amendola che ricorda Angelo Vassallo, il sindaco ucciso 9 anni fa dalla camorra, Costa e Patuanelli si danno un cinque, Costa poi dà un bacio a Bellanova.

Clima disteso, sobrio, molto diverso da quello stile lunapark del giuramento del gialloverde un anno fa, si vede che quelli del Pd hanno esperienza di queste cerimonia e che per il M5s è già cominciato il tempo della normalità democratica.

Durerà? si chiedono tutti all'uscita? Chissà

Tra Conte e Di Maio si parte già con una lite sul ruolo di Fraccaro
04 SETTEMBRE 2019
Il capo grillino impone il suo fedelissimo come sottosegretario alla presidenza del Consiglio dopo un violento scontro: "O lui o salta tutto". Conte si piega (ma poi lo degrada). Berlusconi a Zingaretti: "Per la legge elettorale ci siamo anche noi"


DI TOMMASO CIRIACO E ANNALISA CUZZOCREA

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Per centoquaranta minuti Luigi Di Maio ha minacciato di far precipitare l'Italia in una nuova crisi di governo. Succede quando il leader lascia lo studio di Giuseppe Conte, sbattendo la porta.

Le dieci sono passate da venti minuti. Il premier gli ha appena spiegato che non può accettare Riccardo Fraccaro come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Non uno con un passato che tutti conoscono come pupillo della Casaleggio associati, sentinella scelta nel 2013 da Gianroberto Casaleggio per controllare il gruppo della Camera.

"Non è una scelta appropriata, lo capisci?", prova a farlo ragionare il premier. Preferirebbe Roberto Chieppa, segretario generale di Palazzo Chigi, con cui ha lavorato benissimo. Il nuovo ministro degli Esteri, però, è un muro. "Se non accetti questa condizione, per me possiamo chiuderla qui".

È una minaccia sproporzionata, il sintomo di uno scontro tra leadership per il controllo del Movimento e del suo futuro. Il rilancio di Di Maio è inaccettabile per il Pd, né può digerirlo il Presidente del Consiglio.

Sergio Mattarella, intanto, attende Conte al Quirinale. Ed è costretto a spendere una mattina in attesa che il capo dei 5S dia il via libera a una lista che ha scelto di bloccare per imporre un suo uomo fidato.

La lite è grave. Umanamente, prima ancora che politicamente. Da giorni, infatti, Conte aveva deciso di promuovere Chieppa. Lo considera il migliore per gestire tecnicamente una macchina che dovrà già fare a meno dei due vicepremier. Ma è proprio questa la "colpa" dell'avvocato, ad ascoltare quanto fa trapelare Di Maio.

"Hai già accettato il veto del Pd sul mio nome per la vicepresidenza del Consiglio - gli urla il grillino - non posso tollerare che si ripeta". Sostiene che i patti erano altri, ma Conte gli ricorda di aver chiesto già al rientro dal G7 di Biarritz una sola casella: quella pretesa per Fraccaro.

La verità è che la bocciatura alla vicepremiership brucia ancora troppo. Di Maio si sente accerchiato. Martellato da voci che riportano di forti perplessità interne e internazionali per il suo futuro alla Farnesina. Ha bisogno di blindare la macchina di Palazzo Chigi, imponendo Fraccaro per ricevere in tempo reale il resoconto delle mosse dell'avvocato.

È già passata un'ora. Conte telefona a Zingaretti. Avverte il Quirinale, si scusa per l'inciampo che fa slittare il colloquio. Entrano in campo i mediatori, bussano alla porta di Di Maio distante pochi metri dall'ufficio del premier.

Fallisce anche l'ipotesi di compromesso, che porterebbe Vincenzo Spadafora nel ruolo che fu di Giorgetti: per il capo 5S è troppo autonomo, nonostante il curriculum "dimaiano". E troppo in sintonia con Dario Franceschini per meritare una promozione. Il premier, alla fine, accetta Fraccaro. Sono le 12.40. Ma è infuriato. E lancia una contromossa destinata a riaccendere lo scontro: Chieppa viene comunque indicato come sottosegretario alla Presidenza. Avrà "deleghe importanti in ambito legislativo".

Non parteciperà al consiglio dei ministri, certo. Ma gestirà comunque tutti i dossier più delicati. È una sfida silenziosa e letale a Di Maio. E punta a ridimensionare il ruolo di Fraccaro. Un po' come accadde quando Paolo Gentiloni, in rotta con Matteo Renzi, iniziò a non coinvolgere Maria Elena Boschi - allora sottosegretaria a Palazzo Chigi - in molte decisioni cruciali dell'esecutivo.

Chiuso il "caso Fraccaro", intanto, la lista è pronta per essere consegnata a Mattarella. Anche perché gli altri scogli vengono risolti in fretta: Franceschini sceglie la Cultura - e non la Difesa, la scelta considerata ideale dal Colle - e libera la casella del ministero appena lasciato da Trenta a un altro nome gradito al Quirinale, Lorenzo Guerini. Anche le residue resistenze su Roberto Gualtieri all'Economia si dissolvono. Conte può sciogliere la riserva.

Mentre Di Maio riunisce i suoi uomini a Palazzo Chigi, provato da uno scontro che cancella ogni festeggiamento, Conte rientra a Palazzo. E inizia a preparare il discorso programmatico che pronuncerà lunedì alla Camera per chiedere la fiducia. Vuole offrire alle forze di maggioranza un perimetro largo, che rimodelli il quadro e archivi lo strapotere di Salvini. Immagina una nuova fase, in cui pensa di dover essere protagonista. E per farlo, anche se non lo dirà, c'è bisogno del proporzionale.

Proprio la legge elettorale è già al centro delle trattative più delicate. E un dettaglio dice più di mille ragionamenti. Siamo alla fine della scorsa settimana. Squilla il telefono di Nicola Zingaretti. È Silvio Berlusconi. "Se davvero volete il proporzionale, noi siamo pronti". Quando attacca, il Cavaliere è raggiante. Pensa di aver segnato un punto a suo favore. E inizia a chiamare i suoi dirigenti. "Ho parlato con Zingaretti - racconta - è una brava persona. Simpatico, gentile. Funziona bene anche in tv

Marco Travaglio | 6 SETTEMBRE 2019
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Nell’ultimo mese ho visto cose che voi umani nemmeno in una vita. Ho visto un energumeno da spiaggia chiedere i pieni poteri e poi perdere quelli che aveva dandosi un calcio in culo da solo. Ho visto un prof. avv. con la pochette a quattro punte brutalizzarlo in Senato come neppure Er Canaro. Ho visto 945 parlamentari rientrare dalle ferie appena iniziate con l’abbronzatura a strisce o a macchia di leopardo. Ho visto Renzi finire i pop corn e ingozzarsi di Pan di (5)stelle. Ho visto il direttore del Verano Illustrato strillare per mesi al ritorno del Duce e poi bivaccare in tv tutto funereo perché la rimarcia su Roma è rinviata a data da destinarsi. Ho visto Repubblica titolare “Voto subito (ma c’è chi dice no)” come la compianta Padania. Ho visto Giuliano Ferrara elogiare il Conte-2 e, ciononostante, nascere il Conte-2. Ho visto i giornaloni trasformare Conte da burattino a burattinaio. Ho visto Mattarella attendere pazientemente Rousseau. Ho visto il Pd vincere le sue prime elezioni dopo 13 anni, ma fra gli iscritti a un altro partito. Ho visto il bibitaro Di Maio, dato per defunto da tutti, mettere nel sacco i professionisti della politica e far loro ingoiare Conte, Fraccaro, Bonafede e se stesso, per giunta agli Esteri. Ho visto uno del Pd, Orlando, rinunciare a una poltrona da ministro.

Ho visto un Grillo battersi come un leone per fare un governo con chi gli disse “Se vuoi fare politica, fonda un partito e vediamo quanti voti prendi”. Ho visto il Cazzaro Verde scaricato da Trump e pure da Orbán, che gli preferiscono “Giuseppi” (nel senso di Giuseppe-1 e Giuseppe-2). Ho visto gli spiaggiati del Papeete passare dai selfie e i mojito con Matteo ai vaffa e ai pernacchi a Matteo. Ho visto mezzibusti e dirigenti Rai molto digitali mettere i like su Facebook a Salvini e poi informarsi in giro se i like si possono cancellare. Ho visto una telegiornalista ottenere un programmino Rai perché era in quota Lega e poi perderlo perché è in quota Lega. E ho visto Salvini che implorava i fan di chiamarlo ancora ministro (onorario? emerito?). A quel punto mi sono intenerito. I leghisti in erezione da up erano un filino inquietanti. Ma ora, in ammosciamento da down, costretti a cercarsi un lavoro e qualche hobby per il tanto tempo libero, fanno pena. I telefoni non squillano, i like scarseggiano, gli inviti in tv e a cena si assottigliano, le interviste diventano frasette liofilizzate in fondo al pastone dei tg. E chi prima millantava di conoscerli ora finge di non conoscerli. No, non può finire così. Il Fatto, sempre dalla parte dei più deboli, lancia la campagna “Adotta un leghista”. Se lo abbandoni in autostrada, il bastardo sei tu

L’incontro - Oggi l’ex premier vede Von der Leyen: l’Italia dovrebbe ottenere gli Affari economici

di Luca De Carolis | 6 SETTEMBRE 2019
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Il dem che più faceva muro all’accordo giallo-rosa ha avuto la poltrona che pretendeva, e anche per questo ostentava gelo per l’abbraccio tra gli opposti. E se tutto andrà come deve potrà guarnirla con la delega di maggior peso in Europa, quella agli Affari economici. Come previsto, Paolo Gentiloni sarà il Commissario europeo per l’Italia. Un incarico per cui l’ex presidente del Consiglio e ministro riceve su Twitter i complimenti perfino da Matteo Renzi, con cui era stata guerra evidente fino a qualche giorno fa, quando proprio l’ex segretario lo aveva accusato di aver provato a far saltare l’intesa tra dem e 5Stelle. Ora tutto sembra perdonato nel nome del nuovo assetto, e Gentiloni ringrazia volentieri Renzi, segnando il disgelo. Ma l’ex premier scambia tweet affettuosi anche con Enrico Letta e Carlo Calenda, insomma con le anime più diverse del Pd. E anche questo irrita pezzi del Movimento, mette in circolo tossine. Perché la sua nomina a tanti 5Stelle pare la prova incontestabile che il M5S è stato sconfitto nella partita delle poltrone. Così urlano al dono al “sistema”. Rumoreggiano, per il Gentiloni che stamattina a Bruxelles incontrerà la presidente della commissione europea Ursula von der Leyen per provare a incassare la pesante delega agli Affari economici: e se difetta in competenza, dicono nei palazzi europei, il dem potrà compensare con il curriculum da ex premier per riuscire a prendere il posto del francese Pierre Moscovici.

Di certo sarà commissario e con una delega importante (ballano anche Concorrenza e Commercio). Una poltrona che può essere cruciale per il governo giallo-rosa. Ma diversi 5Stelle non ci stanno. A cominciare da quelli che a Bruxelles sono stati eletti, gli eurodeputati. E il primo della fila è il siciliano Ignazio Corrao, per anni vicinissimo a Luigi Di Maio, con cui però è stato scontro quando il capo politico impose cinque donne, esterne, come capilista alle Europee. Così ieri Corrao colpisce duro: “Complimenti a chi ha negoziato le posizioni di governo per il Pd. Economia, Commissario Ue e Affari europei e anche tutti i ministeri strategici per il Sud (agricoltura, infrastrutture, sanità, sud). Dove noi prendiamo i voti”.

Un’accusa al Di Maio che secondo tanti grillini ha sbagliato molto al tavolo della trattativa, tutelando “solo se stesso e pochi uomini di sua fiducia” come sibila un 5Stelle di rango. Così su Facebook protesta anche un altro eurodeputato, il lucano Piernicola Pedicini: “Non riconosco più il mio Movimento, siamo costretti ad assistere inermi alla consegna dell’Italia al Pd in Europa e ai signori dell’austerità, a quelli che hanno messo in ginocchio le nostre piccole e medie imprese”.

E dietro c’è anche una rabbia che montava da settimane. Perché il gruppo in Europa chiedeva di essere consultato sul nome da indicare alla Ue e, magari, che fosse scelto tra uno di loro. Ma da Roma nessuno li ha ascoltati, raccontano. Neanche quando hanno fatto filtrare che, anche per il ministero degli Affari europei, un eurodeputato avrebbe avuto le giuste competenze. E invece niente. Ma anche un veterano come il deputato Andrea Colletti dice no: “L’indicazione di Gentiloni come commissario Ue è il primo, si spera uno dei pochi, errori del nuovo governo. Spero che i nostri ci spieghino il perché di tale decisione e cosa non ha funzionato negli accordi”. E ovviamente c’è anche il tema di chi è rimasto fuori. Perché per il M5S siciliano, quello con più voti in pancia, è inaccettabile l’esclusione dal governo del capogruppo in Regione Giancarlo Cancelleri, che molti davano come ministro al Sud. Invece quel dicastero ora è dei dem. E non ha fatto certo piacere a Corrao.

Come non è un caso che su Twitter gli abbia risposto il consigliere regionale lombardo Dario Violi. Irritato, perché l’unico ministro della Lombardia è un dem (Lorenzo Guerini), mentre il 5Stelle Stefano Buffagni è rimasto fuori: “Con 10 milioni di abitanti e il 23% del Pil non potevamo rischiare di metterne uno anche nostro a rappresentarci”, ironizza. Senza sorridere

Peter Gomez | 6 SETTEMBRE 2019
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Incapaci come sono di comprendere cosa è accaduto e cosa accade tra la gente, le élite italiane hanno tirato un bel sospiro di sollievo. La nascita del governo Conte 2 è stata salutata come una sorta di rivincita dell’establishment europeo, dei mercati, dell’ordine costituito. Ma se nessuno oggi è in grado di dire se il nuovo esecutivo farà bene o male – i governi, spiegano gli inglesi, sono come i budini, si giudicano mangiandoli, non dall’aspetto – già ora si può affermare che qualcosa è cambiato nel rapporto tra cittadini e politica. Lo dimostra il fatto che per il Pd il voto tra gli iscritti M5S sul nuovo premier e il programma di governo non è più un caso di stregoneria informatica, ma semplicemente un modo per far esprimere uno degli organi di quel movimento: la base. Tanto che martedì 3 settembre, il capogruppo Pd alla Camera, Graziano Delrio, ha definito il voto sulla piattaforma Rousseau “una procedura democratica che rispettiamo”. Su molti giornali, è vero, si sono letti interventi di esimi costituzionalisti, che pensavano l’esatto contrario. Sabino Cassese, sul Corriere della Sera, si è per esempio chiesto quando “il capo politico del M5S smetterà di giocare con la democrazia?” e molti altri gli hanno fatto eco. Il succo del ragionamento è questo: il voto online non è illegittimo, ma il fatto che sia avvenuto dopo l’incarico dato a Giuseppe Conte dal presidente Sergio Mattarella mette a rischio l’architettura costituzionale. Perché se i 115 mila iscritti al Movimento votassero no (hanno poi votato sì, ndr), finirebbero per delegittimare la scelta di far nascere un governo presa dai parlamentari pentastellati eletti con i voti di 11 milioni di cittadini. Se il risultato è negativo, si è domandato preoccupato Cassese, cosa si fa? La risposta è ovvia.

I parlamentari non avrebbero dovuto dare la fiducia. Ma questo, secondo Cassese, avrebbe rappresentato la rivincita del partitocrazia sulla volontà degli elettori M5S espressa in Parlamento tramite i loro eletti. Noi che eravamo dichiaratamente per il sì, pensiamo però il contrario. Certo, se ve ne fosse stato il tempo, sarebbe stato più opportuno indire la votazione online prima dell’incarico, ma visto che di tempo non ce n’era, farlo dopo è stato meglio che non farlo. Perché qualunque fosse stato l’esito del voto, la democrazia non sarebbe stata violentata. Per due motivi. Il primo è che Conte non aveva ancora accettato l’incarico. Era solo un presidente incaricato. E più volte nella storia del nostro Paese è successo che chi si trovava in quella posizione alla fine rinunciasse: perché non si trovava l’accordo sui ministri; sul programma o perché gli organi di un partito alla fine dicevano no. È accaduto, ad esempio, nel 1953 con Attilio Piccioni quando all’ultimo momento i socialdemocratici decisero di votargli contro. Il secondo motivo è invece scritto nell’articolo 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Chi vuole incidere sulle scelte e non limitarsi a votare ogni 5 anni, può insomma entrare in una formazione politica. Cosa che purtroppo fanno ormai in pochi. Anche perché tutti sanno, che in barba alla Carta, i partiti di solito sono molto poco democratici. Per questo la vera battaglia dovrebbe essere quella per avere finalmente una legge che regoli la vita interna dei partiti (e dei sindacati). Non quella contro il voto di chi ancora si iscrive

RQuotidiano | 6 SETTEMBRE 2019
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Gentile redazione, ho letto con un certo sgomento la lettera che Marina Berlusconi ha scritto al Corriere all’indomani delle “verità” emerse sulla morte di Imane Fadil: non soltanto – come era immaginabile – una strenua difesa del padre Silvio (“Il processo Ruby: storia più attenta alle morbosità da voyeur che alla realtà giudiziaria”, sic), ma soprattutto un attacco ai “metodi da sciacalli” utilizzati dai giornalisti che avrebbero cercato con “allusioni” un “sospettato” al quale attribuire una “responsabilità morale”. Su queste pagine non ho mai letto “allusioni”: solo una costante ricerca della verità, così come si addice ai veri cronisti.
Antonella Mezzimbeni

Gentile Antonella, i familiari di Imane, che su questo giornale abbiamo intervistato, ci consegnarono – erano passati solo pochi giorni dalla notizia del decesso della ragazza – parole molto chiare: “Sappiamo solo che Imane è entrata viva in ospedale ed è uscita morta un mese dopo. Nessuno può ridarcela indietro. Vogliamo la verità”. La Procura di Milano ha indagato per mesi. Ha indagato a tutto campo, dopo aver aperto un fascicolo con l’ipotesi di omicidio volontario. E lo ha fatto non escludendo da principio alcuna pista: la morte naturale per una malattia fulminante (ora definita pare, grazie anche al lavoro del pool guidato dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo, in aplasia midollare), avvelenamento inconsapevole, avvelenamento doloso. Noi, come giornalisti, abbiamo fatto il nostro mestiere: mantenendo una “luce accesa” sulle indagini, come promesso ai familiari, e cercando di cogliere la storia nel suo divenire. I punti controversi, durante questi mesi, sono stati – e potrebbero restare – tanti: gli esami del sangue (prelievo del 27 febbraio, esiti consegnati solo il 6 marzo, a decesso avvenuto) che segnalavano la presenza di metalli pesanti in concentrazioni superiori alla media, anche se non letali; le tracce di raggi alfa rilevate nelle urine di Imane; la paura ossessiva della ragazza di essere stata avvelenata… Del resto, anche gli stessi giornali di casa, e quelli vicini a casa, titolavano in prima pagina “Mix di sostanze radioattive: Imane è stata avvelenata” (Il Giornale) o “Avvelenata la teste chiave del processo a Silvio” (Libero). “Ancora non sappiamo perché e come sia successo”, ripetono oggi i familiari di Imane. Attendono la relazione autoptica conclusiva, per poter avere tutte le risposte che da mesi aspettano. E noi siamo al loro fianco, esattamente come sei mesi fa. Proprio perché, sciacalli, non siamo.
Maddalena Oliva

di Antonio Padellaro | 6 SETTEMBRE 2019
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È sbagliato tutto ciò che rafforza Matteo Salvini, è giusto tutto ciò che lo indebolisce. Potrebbe essere un buon criterio per valutare le future mosse del governo (che abbiamo chiamato dei Malavoglia per ragioni intuibili) non trovandone di più convincenti. Il ricorso a Salvini come unità di misura si è infatti reso necessario stante l’assoluta difformità di giudizio che questo diario ha riscontrato nella lettura dei giornali, fonte come è noto di imparzialità e saggezza.

Per esempio, Roberto Gualtieri all’Economia è “il dem esperto d’Europa” (Corriere della Sera), oppure “il comunista che ci ha ammanettato col fiscal compact” (La Verità)? E Vincenzo Spadafora allo Sport è “l’uomo che sfidò il sessismo leghista” (Repubblica), oppure “il balduccino che amava il capo della cricca” (La Verità)? Per non dire di Roberto Speranza: è “un nome giusto per la Sanità” (Repubblica), oppure “fa ribrezzo come tutto lo zoo di Conte” (Libero)? Perciò, in preda a totale smarrimento (e a tristi riflessioni sulla credibilità della stampa italiana) abbiamo allora pensato al Capitan Fracassa disarmato come a una bussola a cui attenerci, e per diversi motivi. Un senso di umanità, innanzitutto, da parte di chi come noi è sempre stato dalla parte dei perdenti. Dopo tante smargiassate vederlo andare per funghi e ammettere con le orecchie basse: “In questo momento perdo uno a zero”, ci conferma nell’idea che egli in fondo non è poi così cattivo, ma che sono i suoi elettori a volerlo con la bava alla bocca. Poi, con un superministro che un giorno d’agosto decise di mandare a puttane il governo dove spadroneggiava, di costringere alla disoccupazione una pletora di fedeli ministri e sottosegretari, e di spararsi sui piedi (e forse un tantinello più su) no, non è giusto infierire.

Attenzione, però, che pur malconcio, il nostro resta pur sempre il capo di un partito che prima del fattaccio veleggiava verso il 38-40%. Concordiamo perciò con chi sostiene (Ilvo Diamanti) che una fase di opposizione potrebbe rigenerare Salvini, non più appeso ai vincoli europei e di bilancio (oltre che all’obbligo di farsi vedere ogni tanto al Viminale). Ma potrebbe anche sgonfiarlo del tutto una volta allontanato dal potere.

C’è un’incognita: che gli eventuali errori del Conte Due gli riaprano l’autostrada della rivincita verso Palazzo Chigi. Una prospettiva che temiamo fortemente, non certo perché consideriamo l’uomo del mojito il male assoluto ma semplicemente perché lo riteniamo inadatto a governare persino una spiaggia.

Perciò c’interroghiamo preoccupati su alcune inevitabili scadenze. Che succederà di diverso dal recente passato quando la prossima nave dei disperati chiederà di attraccare a Lampedusa? E quando si riproporrà la ripresa dei lavori sul Tav Torino-Lione in forza della decisione adottata dal Conte Uno, come si comporteranno i grillini di lotta e di governo ? E dove si troveranno i tanti denari che mancano ai nostri conti sgarrupati? E il dossier Autostrade? Ma soprattutto, quali sono le reali intenzioni di Matteo Renzi? Per quanto tempo resisterà alla tentazione di minare le fondamenta del governo giallo-rosso ricoprendo di macerie Zingaretti e Di Maio? Mentre c’interroghiamo pensosi sui destini del Paese, un’immagine si fa ossessiva. Quella di un Salvini seduto sulla riva del fiume con un grosso contenitore di popcorn (o se preferite di Nutella). Che attende fiducioso

Carlassare, De Masi, Feltri, Gomez, Lillo e Montanari | 6 SETTEMBRE 2019
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Premio Di Padre in Figlio
Le aziende di famiglia hanno risultati migliori. È arrivato il momento di premiarle 
Sponsorizzato da Credit Suisse

Da dove deve partire il governo Conte 2? Abbiamo chiesto a sei tra nostre firme ed esperti quali siano le priorità del nuovo esecutivo in altrettante aree tematiche di competenza: Interni, Giustizia, Economia, rispetto della Carta e riforme costituzionali, Cultura e Lavoro. Per non perdere di vista le sfide mancate dal passato governo gialloverde e per correggerne al più presto gli errori.

Lorenza Carlassare
La Costituzione resti il faro e si ritorni al proporzionale

Un governo che non voglia mai perdere di vista la Costituzione dovrebbe quantomeno partire dal contrasto alle disuguaglianze. È la nostra Carta a dirci che nessuno deve essere lasciato indietro, motivo per cui sono favorevole a misure come il Reddito di cittadinanza. In secondo luogo, non si dimentichi di dare dignità alla cultura e all’istruzione: da sempre l’ignoranza è del popolo schiavo, la democrazia senza cultura non può esistere. Ma per rispettare a pieno la nostra Costituzione c’è bisogno anche di un ritorno a un sistema elettorale di tipo proporzionale, che sia garanzia di rappresentatività. Troppe volte in questi anni – e ricordiamo bene il tentativo di Matteo Renzi, che prevedeva addirittura un ballottaggio – si è tentato di privilegiare la governabilità, ma non può funzionare così. Il ritorno al proporzionale sarebbe anche il modo per dare senso al taglio dei parlamentari di cui tanto si parla: a me sta bene, purché non venga meno la rappresentatività, il legame tra i cittadini e i parlamentari.

Tomaso Montanari
Il Mibact parta dalle assunzioni. E basta Grandi Navi a Venezia

Primo: assunzioni. A tempo indeterminato. Per liberare le ultime generazioni di storici dell’arte, archeologi, archivisti, bibliotecari, ecc. dall’incubo della precarietà e insieme per salvare un patrimonio diffuso che ogni giorno muore per mancanza di personale e di fondi. Bonisoli aveva avviato l’iter per circa 4000 assunzioni: bisogna condurlo in porto, ma subito dopo ce ne vogliono almeno altrettante, e tutto è inutile se non si ottiene di far saltare il blocco del turnover per i Beni culturali. È questione di vita o di morte. Secondo: mettere fuori dalla Laguna di Venezia le Grandi Navi. Subito. Terzo: affidare la soprintendenza di Roma a un commissario che sia incorruttibile e competentissimo. Candidato naturale: l’ex direttore alle Belle Arti, Gino Famiglietti. Poi, certo, bisogna sostituire i direttori dei super-musei manifestamente non all’altezza (da Capodimonte a Brera, passando per molti altri…), puntando sulla produzione e diffusione di conoscenza e non sul botteghino. Ma significherebbe rovesciare una certa riforma Franceschini…

Domenico De Masi
Centri per l’impiego da rifare, puntando poi sul salario minimo

La prima cosa di cui dovrebbe occuparsi la nuova ministra del Lavoro è una seria ristrutturazione dei centri per l’impiego: dovrebbero essere come la rete stradale o ferroviaria, c’è bisogno di interventi capillari. Altrettanto decisiva sarebbe una riforma sull’orario di lavoro: noi lavoriamo 1800 ore di media all’anno, in Germania 1400. Noi abbiamo il 10 per cento di disoccupazione, loro il 3,8. Un rimedio a questo scarto è proprio la riduzione delle ore di lavoro. E poi c’è il tema del Reddito di cittadinanza. Il Pd deve rendersi conto che non è altro che un Reddito di inclusione fatto meglio e allargato. Dunque si deve cercare di perfezionarlo e di arrivare a più persone. Infine, esigenza fondamentale è quella del salario minimo, che non si può rimandare. Capisco che i sindacati vogliano inserire i salari all’interno delle contrattazioni, ma se in certi settori la contrattazione non esiste, i lavoratori vanno tutelati con un salario minimo. Se poi un giorno arriverà la contrattazione, tanto meglio.

Peter Gomez
Ricucire con Tunisi sui migranti. Poi una legge sui beni confiscati

La ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, dovrà far rispettare le regole. A tutti. Indipendentemente dal colore della pelle. Anche perché il dibattito propagandistico sui decreti Sicurezza, da modificare nelle parti indicate dal Quirinale, ha sviato dal nocciolo della questione: le norme per regolamentare l’immigrazione e garantire l’integrazione in Italia già c’erano. Ma per anni sono state disapplicate come dimostrano i tanti scandali nella gestione dei richiedenti asilo. Due poi gli interventi da affrontare subito. Il primo: ristabilire buoni rapporti con la Tunisia. Perché dopo gli attacchi di Matteo Salvini (“esporta galeotti”) Tunisi ha quasi rinunciato al contrasto delle partenze da quelle coste (i cosiddetti sbarchi fantasma). Il secondo: rivedere le nuove norme su

Marco Lillo
Sulla giustizia intenzioni vaghe: la riforma Bonafede va cambiata

La prima cosa da fare è potenziare l’uso dell’informatica. Il deposito degli atti per via telematica, previsto dalla riforma Bonafede, è un passo avanti. Poi, ora che Salvini non c’è più, sarà bene mantenere l’entrata in vigore della riforma della prescrizione nel 2020 per togliere agli avvocati e imputati un incentivo a tirarla per le lunghe. Il programma M5S-Pd indica solo gli obiettivi (riduzione dei tempi della giustizia e riforma dell’elezione del Csm) ma è vaga sui mezzi. Il pacchetto di riforme approvato (‘salvo intese’) dal precedente governo dovrà essere migliorato: il potere dei procuratori capi (nominati spesso con criteri “correntizi”) di stabilire i reati da inquisire con priorità disegna una giustizia più discrezionale e verticizzata, con il rischio di una minore autonomia del singolo pm. Anche la doppia tagliola prevista dalla riforma per le indagini troppo lunghe (possibile procedimento disciplinare contro il pm e pubblicità degli atti di indagine) è rozza. Rischia di punire i più scrupolosi e di bruciare le inchieste. I beni confiscati alle mafie. Si tratta di un patrimonio valutato in 30 miliardi, che Salvini voleva vendere. Farlo, però, è complicato: sia perché i boss spesso tentano di riacquistarli, sia perché i beni gestiti male poi perdono valore. Una parte almeno va riqualificata e data alla collettività.

Stefano Feltri
Dalla lotta all’evasione si capirà se c’è differenza con i gialloverdi

Il governo ha il problema immediato della lmanovra, ma ha anche l’esigenza di approvare riforme per non trovarsi in emergenza tra un anno. La priorità sono le clausole di salvaguardia sull’Iva: dove trovare 23,7 miliardi dal 2020 senza fare troppo deficit? Un primo passo sarebbe rimettere in discussione misure la cui scarsa utilità è ormai chiara: Quota 100, la flat tax per le partite Iva, gli 80 euro renziani. Bisogna dirsi la verità: servono più entrate, che non significa necessariamente più tasse per chi già le paga. Ci sono tasse da alzare (l’imposta di successione porta solo 800 milioni l’anno, l’abolizione dell’Imu prima casa è un errore da almeno 4 miliardi l’anno) prima di abbassarne altre. Nel 2015 il governo Renzi ha reso quasi impossibile mandare gli evasori a processo, perché la soglia di punibilità dei reati fiscali è troppo alta. I 5 Stelle hanno promesso di abbassarle (“manette agli evasori”), ma la Lega si opponeva. Se la coalizione col Pd è diversa si vedrà subito da questo dossier

giovedì 29 agosto 2019


ApprofondimentoGoverno Conte
Idea del premier: nessun vice. Zingaretti per la svolta vuole Interno ed Economia

28 AGOSTO 2019
Oggi il premier riceverà da Mattarella l'incarico di formare il governo, poi squadra e programma. Il giuramento entro 7 giorni. E Di Maio conferma: "La Lega mi ha offerto la presidenza del Consiglio"
DI TOMMASO CIRIACO
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La minaccia di Luigi Di Maio arriva a sera, dopo l'incredibile post con cui Beppe Grillo lo "estromette" dall'esecutivo. Il capo del Movimento telefona al comico. È sconcertato. Gli ripete quel che ha già detto a Giuseppe Conte e Nicola Zingaretti, per spezzare l'assedio. "Non mi volete come vicepremier? Resto fuori e mi comporto di conseguenza".
Soffre, il capo 5S. Contestato dai suoi, frenato dal Pd, limitato nei movimenti dalla tela di Conte. E dal fondatore del Movimento. In effetti, applicando la "dottrina Grillo" verrebbe escluso con i suoi fedelissimi Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro, finora considerati blindati. E il leader non può permetterselo. La verità è che, comunque vada, Palazzo Chigi è già orientato a tenere lontano Di Maio dalla casella di vicepremier, dirottandolo alla Difesa o agli Esteri. Nel primo caso deve superare alcune resistenze dei vertici militari, nel secondo il vaglio del Colle.
L'incastro di governo, comunque, passa inevitabilmente da Conte, che ha costruito la nuova alleanza con il Pd e ridotto l'influenza del capo 5S. È l'avvocato a trattare direttamente in queste ore con Zingaretti. "Voglio scegliere io il mio sottosegretario alla Presidenza", ha fatto sapere ieri. A Di Maio ha ribadito lo schema per superare lo stallo sui vice: "O due, o nessuno". In realtà, nel Pd giurano che le strade promesse dall'avvocato sono due: un vicepremier unico dem oppure nessun vice. Il "pacchetto" che va per la maggiore è quello che promuove i due principali artefici del patto giallo-rosso: Dario Franceschini vicepremier e il 5S Vincenzo Spadafora sottosegretario alla Presidenza. La seconda strada cancella i vice - per la gioia di Conte - e prevede il sottosegretario ai dem. Andrea Orlando, probabilmente. Ma non è finita qui. Perché in queste ore Movimento e Pd sono al lavoro per selezionare profili graditi al Colle per i ministeri chiave: Economia, Interni, Esteri e Difesa.
Si parte dal Viminale, dove è ancora fresco il ricordo delle feste al Papeete. I due nomi vagliati in queste ore dal Nazareno sono quelli di Marco Minniti e Lorenzo Guerini. Il primo gode di un ottimo rapporto con il Colle, conosce a perfezione la macchina e sarebbe in grado di rispondere agli attacchi quotidiani che arriveranno da Salvini. Il secondo ha chance nel caso in cui si decida di optare per un profilo meno noto e più gradito ai 5S. L'alternativa, per Guerini, è quella perfetta per la sua storia di amministratore: gli Affari regionali.
E poi c'è l'Economia. I renziani si spendono per Roberto Gualtieri, che libererebbe tra l'altro un posto a un altro renziano all'Europarlamento. Ma Zingaretti potrebbe mettersi di traverso. Difficile però che autorizzi la riconferma di Giovanni Tria. Di certo, l'attuale ministro ha un ottimo rapporto con Paolo Gentiloni. L'ha sentito al telefono e potrebbero lavorare insieme se l'ex premier dovesse entrare nella Commissione Ue, a meno che non scelga di ritornare alla guida della Farnesina.
Poi c'è il capitolo donne, a cui Zingaretti intende riservare una quota significativa degli otto ministeri che spettano al Pd (cinque alla maggioranza interna, tre alle minoranze). La corrente di Martina punta su Tommaso Nannicini al Lavoro, mentre quella renziana potrebbe spingere su Anna Ascani o Ettore Rosato. Lia Quartapelle spera nelle Politiche europee. In corsa anche Marina Sereni e Paola De Micheli, per l'Istruzione o la Sanità: la 5S Giulia Grillo, infatti, potrebbe mollare. "Sono stanca", ha detto in assemblea.
Infine una variabile. Quella che nota il renziano Tommaso Cerno: "Un governo senza poltici? Grillo va nella direzione giusta". Ecco, Zingaretti per ora non si espone. Ma c'è chi giura che potrebbe sparigliare. Chiedere un passo indietro a chi è già stato ministro. E dire: "Ve l'avevo detto, è il governo della discontinuità".

ApprofondimentoCrisi Di Governo
“Discontinuità”. “Non rinnego”: i discorsi opposti dei due leader

28 AGOSTO 2019
Zingaretti: "Abbiamo confermato a Mattarella l’esigenza di costruire un governo di svolta e discontinuità". Di Maio: "Non rinnego il lavoro degli ultimi 14 mesi Il nostro programma è lo stesso, quello votato da 11 milionidi italiani"
DI GOFFREDO DE MARCHIS
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Gemelli molto diversi. Un murale con Di Maio e Zingaretti che si baciano in bocca, come quello apparso in una strada di Roma a immortalare l'intesa gialloverde con Salvini, è difficile da immaginare. Infatti nessun writer lo ha ancora disegnato. Siamo alla fase delle "convergenze parallele". Diverso il linguaggio, la visione, i valori. "Noi siamo post ideologici. Non esistono la destra e la sinistra", ripete Luigi Di Maio uscendo dal colloquio con il capo dello Stato. "Noi siamo forti di un'identità, di una storia da far valere nella costruzione di un'alleanza", sottolinea invece Nicola Zingaretti. L'indistinto grillino però, nel corso degli anni, si è mangiato milioni di voti provenienti proprio dal Pd.
Anche non essere è un'identità. Favorisce ad esempio la voglia di governare con la Lega e subito dopo con i dem. Senza fare una piega. Di Maio è come al solito impeccabile nel suo completo blu, abbronzato, comunicatore efficace. Nel pomeriggio, dallo stesso microfono del Quirinale, Zingaretti dice: "Non c'è nessuna staffetta, non esiste un testimone da raccogliere. Siamo qui per dare al Paese un governo di svolta e di discontinuità". Su questo punto non si sono capiti, evidentemente. "Non rinnego il lavoro fatto in questi 14 mesi. Abbiamo varato dei provvedimenti storici", è la linea serale del vicepremier uscente e, nei suoi desideri, rientrante. Cosa non rinnega Di Maio? "Quota 100 e il reddito di cittadinanza. Le nuove politiche sull'immigrazione grazie alle quali ci siamo guadagnati il rispetto ai tavoli europei ed internazionali". Beh, il segretario del Pd la pensa all'opposto perché, nel discorso alla direzione del partito, osserva: "Serve una svolta nell'organizzazione e gestione dei flussi migratori". Quindi non i porti chiusi, non la sfida quotidiana alle Ong, non la guerra ai "taxi del mare" che furono definiti così mica da Salvini ma dal capo politico del Movimento 5 stelle.
Può funzionare una maggioranza con due partiti in cui uno si mette in discussione, coltiva la virtù del dubbio, lo ammette persino come ha fatto ieri Zingaretti davanti ai suoi parlamentari, e chi, al contrario, non rinnega e rilancia? "L'obiettivo - dice Di Maio - rimane quello di realizzare il nostro programma, sempre lo stesso del 4 marzo, votato da 11 milioni di cittadini". Contorcendosi, tormentadosi, onestamente ammettendo le difficoltà, Zingaretti confessa invece che l'abbraccio di oggi è figlio "del senso di responsabilità", del mettersi alla prova. E non cerca abiure. Anzi. Chiedendo ai 5 stelle di cambiare, spiega che i primi a cambiare devono essere i dem.
Alle certezze di quella macchina robotica che è Di Maio, al Movimento delle espulsioni, della purezza e dell'onestà, il Pd oppone la consapevolezza. "Non sarà una passeggiata di piacere. Ma ai nostri interlocutori domandiamo un programma nuovo e di dare prova della stessa nostra volontà e coerenza", insiste il governatore del Lazio.
Zingaretti demolisce la formula del "Contratto". Di Maio invece non fa mai marcia indietro. "Non abbiamo imboccato la strada più facile", osserva il segretario dem. Già. L'altro pronuncia finalmente, dopo giorni, la sigla magica: "Accordo politico con il Partito democratico". Come una concessione en passant.
Diversi in tutto. Per dire: Di Maio sta facendo il diavolo a quattro per rimanere vicepremier e anche ministro e anche leader del M5s. Ieri si è quasi autoconfermato dicendo: "Degli incarichi parleranno Conte e Di Maio. Prima i programmi". Zingaretti no. Sta resistendo al pressing di mezzo partito. Vuole rimanere fuori dal governo. Segretario e presidente della Regione Lazio: bastano come poltrone. "Ci sono dei cittadini che mi hanno votato, li voglio rispettare. Il discorso sarebbe cambiato solo se ci fossero state le elezioni anticipate". Goffredo Bettini, dalla Thailandia, ci discute, lo invita a fare il grande passo avanti. L'altro, il nuovo alleato, non ci pensa proprio al passo indietro.
Con il voto sulla piattaforma Rousseau Di Maio cerca il consenso virtuale, la democrazia diretta che è fredda come un clic mentre Zingaretti, ieri, esprimendo tormento e non granitiche certezze, si è preso la standing ovation in carne e ossa di decine di dirigenti e parlamentari. L'emozione di un applauso, il calore di un riconoscimento collettivo, seppure di ottimati. Almeno un punto a favore del Pd. Zingaretti suda e si asciuga la fronte con un fazzoletto. Di Maio non suda praticamente mai, almeno davanti alle telecamere. Come un robot appunto. Eppure saranno loro i protagonisti della nuova alleanza, quelli che dovranno sbrogliare i problemi e trovare le soluzioni. Forse non si baceranno in bocca, ma la coppia di prima è finita male

EditorialeGoverno
Il partner riluttante

28 AGOSTO 2019
DI EZIO MAURO
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La forza delle cose ha preso la guida della crisi, ha sopravanzato i veti e le pretese, ha ignorato i dubbi e le resistenze, incanalando le consultazioni del Quirinale verso un governo formato dal Movimento Cinque Stelle e dal Partito democratico. Ci sono ancora le trappole, eccome, gli intoppi e le incognite dell'ultima ora, come avviene sempre quando si esce dal sistema maggioritario secco e a ogni crisi bisogna mettere in piedi una coalizione. Ma sia Di Maio che Zingaretti ieri hanno portato ufficialmente al presidente Mattarella un accordo politico che farà salire insieme al governo due forze fino a ieri concorrenti, anzi antagoniste, addirittura nemiche.
Questa precarietà dell'intesa - senza tradizioni condivise, riferimenti culturali simili, valori comuni, pratiche politiche omogenee e affini - fa sì che la crisi finisca con un governo, ma senza vincitori. Sul campo resta solitario ed evidente soltanto lo sconfitto, Matteo Salvini.
Voleva tutto il potere su di sé quando ha aperto la crisi senza far bene i conti coi meccanismi della democrazia parlamentare, non accontentandosi del potere legittimo e costituzionale. Oggi inevitabilmente si scarica su di lui tutto il peso della disfatta, perché con un colpo di testa ha portato la Lega a perdere la vicepresidenza del Consiglio, sette ministeri, il Viminale e il commissario europeo, isolandola dopo aver smarrito il filo di qualsiasi possibile alleanza: passando in dieci giorni dal ruolo di uomo forte che si sentiva l'Italia in mano a mendicante politico, che dopo aver implorato Di Maio di ritornare a casa dovrà presentarsi col cappello in mano ad Arcore da Berlusconi.
Lo sfondamento istituzionale tentato da Salvini, sfiorando il tabù dell'autoritarismo bonapartista, è certo una delle circostanze che hanno determinato non soltanto l'inizio della crisi - come pensa il leader della Lega - ma in realtà il suo esito. In pratica, il ministro dell'Interno ha alzato l'asticella delle elezioni che pretendeva dal Quirinale, fissando una posta di democrazia e di eccezione costituzionale, che ha trovato un'immediata reazione contraria, coalizzando interessi diversi e obiettivi distinti. Naturalmente non è il caso di parlare di fascismo, vista anche la sproporzione tra il termine e i personaggi: basta chiamare con il nome giusto i fenomeni a cui stiamo assistendo, le pulsioni razziste, le pratiche di governo feroci con i più deboli, l'intonazione xenofoba di ogni politica, la scelta antieuropea, le tentazioni putiniane, l'allontanamento dall'Occidente. Potremmo dire che con Salvini pretendente all'onnipotenza il sovranismo ha cercato di realizzare in Italia la separazione concreta tra democrazia e principi liberali, dando vita a un esperimento politico capace di concretizzare nel nostro Paese lo spirito dei tempi in cui viviamo.
Questo progetto di destra estrema richiede un contrasto forte e largo da parte di tutte le forze politiche responsabili: e avrebbe potuto essere la cornice culturale della nuova intesa tra M5S e Pd, partendo da un dato di fatto rilevante, e cioè il voto comune dei due partiti in Europa a favore di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione Ue. Così l'accordo di governo avrebbe trovato un suo disegno politico, e non sarebbe nato soltanto dalle convenienze casuali e spicciole dei contraenti. Ma per avere un disegno bisogna saper disegnare. Invece è mancata proprio una drammaturgia della crisi, capace di costruire un percorso e un approdo, come ha indicato Scalfari.
E ieri, mentre Zingaretti (con la fatica che ogni volta è necessaria per costruire una posizione unitaria nel Pd) si è sforzato di dare una vernice culturale e di respiro alla nuova alleanza, parlando di "governo di svolta e discontinuità", Di Maio è sembrato un partner riluttante, che dà via libera all'intesa non guidando il suo partito, ma inseguendolo: con una evidente riserva mentale nostalgica della Lega. Ha voluto ribadire che Salvini gli aveva promesso la premiership se fosse tornato all'alleanza appena sciolta, ha aggiunto di aver rifiutato "con serenità e gratitudine", e soprattutto ha rivendicato "il lavoro fatto con la Lega in questi 14 mesi", indicando proprio nell'endorsement sovranista di Donald Trump a favore di Conte la conferma che "siamo sulla strada giusta".
Nessuno si aspettava un'abiura dall'ex vicepresidente del Consiglio, che in queste ore deve difendere se stesso e il suo ruolo in caduta libera dentro il partito e fuori. Ma la debolezza culturale con cui viene rivestito il governo di alleanza col Pd è stupefacente, una specie di profilassi minimalista, come se ci volessero i guanti per maneggiare questa intesa, una sorta di spoliazione di ogni significato, quasi che i grillini - spaventati dal peso postideologico della tradizione di sinistra - volessero trascinare l'accordo verso il punto zero in cui vivono e reinventano quotidianamente la storia del Paese: mentre invece il Pd ha un evidente bisogno di rivestire di significato un'intesa troppo repentina per stare in piedi da sola. Se il senso politico della nuova coalizione è il nulla, se l'orizzonte di governo è quello degli ultimi 14 mesi, se la "gratitudine" è tutta rivolta all'offerta disperata di Salvini (altro che uomo forte), se davvero come ha detto ieri Di Maio destra e sinistra non esistono più, allora perché i Cinquestelle si sono separati dal vecchio partner? Solo perché il leader leghista lo ha deciso, svelandoli incapaci di vita propria e di politica autonoma? E cosa significa il silenzio di Di Maio davanti alle critiche di Conte in parlamento a Salvini? Visto che per lui destra e sinistra non esistono, qual è il suo giudizio sulle politiche, i metodi, la cultura del ministro dell'Interno? Come le chiama?
Sono le questioni irrisolte che pesano - ben più della corsa alla vicepresidenza - davanti al Pd. Con chi si stanno alleando i democratici? E per fare che cosa? Questa ricerca di senso è il cuore della politica. Ci sono ragioni obiettive, d'emergenza, per dare un governo al Paese evitando un autunno complicato dal punto di vista economico, c'è una salvaguardia istituzionale da garantire, c'è una destra sovranista da arginare, c'è un rischio Quirinale dietro il prossimo angolo. La forza delle cose, appunto. Ma non si vede nient'altro, non si sa nemmeno come definire questo governo, al di là dei colori calcistici: è un'alleanza populista e riformista? O invece un test sulla mutazione della sinistra? O ancora uno stato di necessità tra destra e sinistra? Oppure semplicemente non può avere un nome perché non ha un carattere, un'anima e un'identità, per consentire ai Cinquestelle di mantenere indefinita - a somma zero - la loro natura?
Si risponderà banalmente che l'Italia ha bisogno di programmi concreti, di onestà e di buongoverno: tutto il resto è Novecento. Naturalmente, purché si sappia che queste sono precondizioni. Poi tocca alla politica, in qualunque secolo. Ma ogni scelta, anche la più tecnica e la più neutra, nasce da un'opzione culturale, si iscrive in un disegno generale, concorre a formare una visione del mondo. Ascoltando il riduttivismo politico di Di Maio, la deprivazione di senso per il nuovo governo, sembrava ieri che i grillini, usciti di casa dopo sette giorni di lutto per l'abbandono di Salvini, avessero incontrato per caso il Pd all'angolo di strada. Così non si va lontano. La forza delle cose, senza politica, è in realtà una debolezza

CommentoGoverno
Ma ora serve un colpo d’ala

28 AGOSTO 2019
DI STEFANO FOLLI
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Ora che le carte sono sul tavolo, spetta al premier incaricato dare un senso all'accordo politico annunciato da Zingaretti e Di Maio. Non dovrebbe essere un compito astruso, quello che attende Giuseppe Conte, almeno per quanto riguarda le cose da fare. Infatti il programma economico lo fornirà l'Europa e i buoni rapporti con la futura Commissione von der Leyen potrebbero consentire qualche utile "bonus" al governo dell'Italia "desalvinizzata". L'arcigna austerità degli ultimi anni potrebbe cedere il passo a un'austerità selettiva e più flessibile, preziosa per pagare intanto le clausole di salvaguardia dell'Iva.
Già questo giustificherebbe metà delle ragioni che hanno spinto due forze agli antipodi - e in particolare il Pd - a mettere in piedi il Conte-bis ribaltato. Impresa rischiosa e carica di incognite.
Quanto al resto, non c'è davvero da attendersi granché: la ristrettezza dei tempi impedisce di approfondire i temi controversi e questo è un ottimo alibi per entrambi i soci della coalizione. Aspettiamoci un'alta marea di retorica, diffusa senza risparmio per coprire la povertà di idee e di soluzioni che il cosiddetto "programma condiviso" porterà con sé. Del resto, i veri impegni restano sullo sfondo, a cominciare dal taglio dei parlamentari che spingerà a scrivere una nuova legge elettorale in chiave proporzionale. E non sarà facile, nonostante la convergenza di interessi.
Molto più interessante è la questione dei ministri: chi va al posto di chi. Qui resta aperta la questione del vice-premierato a Di Maio, una sorta di assicurazione sulla vita per il giovane 5S che dice di non rinnegare nulla di quanto ha fatto nei quattordici mesi al governo con Salvini. Curioso modo di cominciare un'altra vita con un nuovo coniuge, il Pd. Che infatti stavolta non può accettare. Il nodo lo scioglierà Conte e non è escluso che il premier colga l'occasione per rinforzarsi ulteriormente proprio a scapito dei 5S, oltre che del Pd. In ogni caso, quel che conta è la possibilità di un colpo di scena o di un colpo d'ala tali da movimentare il quadro, così da mascherare la mediocrità in cui nuota il governo nascituro. Un'idea l'ha lanciata ieri sera Beppe Grillo: un ministero formato da personalità di primo piano della vita civile, lontane dal "poltronismo" che affligge anche i Cinque Stelle (osservazione quanto meno tardiva), lasciando ai sottosegretari di curare l'indirizzo politico della compagine. L'idea è tutt'altro che nuova, ma verrebbe presentata come inedita se si deciderà di adottarla. Il problema è che riesce difficile credere che il M5S di oggi - un misto di centrismo furbesco e di massimalismo demagogico - possa rinunciare a posti e poltrone ministeriali per obbedire al suo antico "guru".
Certo, se accadrà sarà un evento che può cambiare il giudizio sull'operazione debole e contraddittoria denominata Conte-bis. Ma è un po' strano che Di Maio, il piccolo capo disposto a fare le barricate per salvare - senza successo - il suo scranno di "vice", possa accettare il consiglio di Grillo e rinunciare ai ministeri per aprire le porte a una serie di illustri personalità indipendenti. Anche questo è il segno che qualcosa ribolle nella pentola dei 5S. Allo stesso tempo, anche il Pd è un partito ferito: come dimostra la scissione individuale di Calenda a cui dedicheremo spazio domani

RubricaL’Amaca
Il liberale immaginario

28 AGOSTO 2019
DI MICHELE SERRA
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Il Berlusconi anziano, porcellanato e imperterrito che, uscendo dal colloquio con Mattarella, invoca una svolta liberale, una destra liberale, un futuro liberale per un'Italia liberale in un'Europa liberale, evidentemente si è sottoposto all'intervento di chirurgia plastica più arrischiato e definitivo: il lifting della memoria mediante l'asportazione delle parti scomode.
La morte della destra liberale (quel poco di cui disponeva l'Italia) è avvenuta soprattutto per sua mano. Salvini e il populismo sono figli suoi. L'idea di rottamare "il teatrino della politica" e sostituirlo con l'applauso plebiscitario dell'audience è figlia sua. La sostituzione dei cittadini con i consumatori è figlia sua. La riduzione della politica a un format mediatico, rendendo afasici e inservibili i famosi corpi intermedi, è figlia sua. È lui che coniò lo status di "unto del Signore" e di "eletto dal Popolo" come condizione che pone il leader al di sopra di ogni limite di potere, per primo il potere della magistratura. Lui che sdoganò ufficialmente, per primo, i neofascisti. Lui che comiziò (ben prima di Salvini) davanti a una vistosa selva di saluti romani: molti camerati, prima di venerare Salvini, venerarono lui.
Per sua sfortuna, la nostra memoria è ancora piuttosto vegeta. Ricordiamo bene gli anni della cosiddetta Seconda Repubblica, le cadute di stile e l'ignoranza delle regole spacciate per simpatica spontaneità, la ridente distruzione del faticoso, inane lavoro dei padri (antifascisti) della Repubblica. Di una destra liberale avremmo un disperato bisogno tutti quanti, anche noi di sinistra. Che sia Silvio Berlusconi, a evocarla, è la prova provata che ne siamo ancora disperatamente lontani

ApprofondimentoBrexit
William Dalrymple: “Boris calpesta la Storia. Così il Regno si divide”

28 AGOSTO 2019
Secondo il celebre storico britannico con la chiusura del Parlamento, Boris Johnson ha imitato diversi sovrani inglesi del passato. Da Giacomo II d'Inghilterra a, soprattutto, Carlo I. Che per imporre leggi e balzelli fiscali, sospese il Parlamento e "esplose la guerra civile inglese"
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE ANTONELLO GUERRERA
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LONDRA - "Ciò che ha fatto Boris è profondamente antidemocratico. Spero che faccia la fine di Giacomo II, cacciato in esilio, e non di Carlo I...". Lo auspica il celebre storico britannico William Dalrymple, 54 anni, in questi giorni in Europa, lontano dalla sua seconda casa India. Con la controversa chiusura del Parlamento per evitare ostacoli verso la Brexit dura, ieri Boris Johnson ha imitato diversi sovrani inglesi del passato. Giacomo II d'Inghilterra, che nel 1688 venne deposto dal popolo della "Rivoluzione gloriosa" dopo aver provato a scavalcare i parlamenti inglesi e scozzesi con i suoi "decreti cattolici". Ma i paragoni di questi giorni sono sopratutto con Carlo I, che per imporre leggi e balzelli fiscali, sospese il Parlamento.
E finì malissimo...
"Già. Esplose la guerra civile inglese (1642-1651, ndr) e nel 1649 la furia della folla decapitò Carlo I. Non vorrei che capitasse un destino in qualche modo tragico anche a Boris".
E magari una sorta di "guerra civile"?
"Non credo che ci sarà un conflitto armato nel nostro futuro e spero vivamente che non ci siano violenze. Ma certo decisioni come quelle di Boris ieri spaccano letteralmente il Paese a metà. Ciò non può portare nulla di buono".
La tensione è già molto alta.
"Colpa di Johnson. Siamo una democrazia parlamentare, non può calpestare così la Camera dei Comuni. Il referendum sulla Brexit nemmeno doveva esserci nel 2016. Come ha detto lo speaker della Camera John Bercow, la sospensione dei lavori del Parlamento è un oltraggio alla nostra Costituzione".
Che però non è una Costituzione usuale: sì la Magna Carta come base e poi una marea di cavilli, convenzioni (come quella che ha imposto alla regina di approvare il "decreto Johnson"), leggine parallele, precedenti. Tutto interpretabile a modo suo.
"È vero. Sinora la nostra "Costituzione" si è dimostrata molto flessibile. Non abbiamo "check and balances" (contrappesi, ndr) classici. Sarà molto interessante vedere se resisteranno di fronte a un premier che forza le regole. Ma questo è possibile soltanto in un caso".
Quale?
"Che le opposizioni e lo speaker della Camera Bercow difendano strenuamente la nostra democrazia plurisecolare. È il momento decisivo".
Si prospettano proteste molto dure, i laburisti hanno già detto che occuperanno il Parlamento e ne hanno già annunciato uno alternativo.
"È scontato. È stato un azzardo clamoroso. Anche perché a breve inizieranno a protestare anche i brexiter".
È curioso: in passato il Parlamento era espressione del popolo, contro i sovrani. Ora, Johnson e i brexiter sostengono che la Camera si oppone al popolo.
"Sta tutta qui la stortura di Johnson e dei suoi sodali. Porre il Parlamento in contrapposizione al "popolo" è una retorica incendiaria. Mi spiace perché non lo considero un politico autoritario. Ma mi pare passato nel lato oscuro come Darth Vader di Guerre stellari. Ha visto che governo ha? Priti Patel, la ministra degli Interni, era per la pena di morte. È un esecutivo di pazzi. Ora potrebbe saltare tutto il Regno Unito".
Lei è scozzese e al referendum per l'indipendenza nel 2014 votò per restare nel Regno Unito.
"Altri tempi. È cambiato tutto. A causa di quello che è accaduto ieri e del No Deal sempre più vicino, anche il Regno Unito potrebbe spaccarsi definitivamente dopo secoli. E io, da sempre unionista, la prossima volta voterò per l'indipendenza. Non mi faccio governare da questi estremisti inglesi


mercoledì 28 agosto 2019

Noi, che siamo gente semplice, ci orientiamo con quattro bussole molto collaudate, che non ci hanno mai tradito. La prima è B.: se non vuole una cosa, è quella giusta. La seconda è Repubblica: se indica una strada, è quella sbagliata. La terza è Salvini: se chiede qualcosa, va evitato; se lo teme, va fatto. La quarta è Giuliano Ferrara: se sposa un governo, disastro assicurato (infatti, dagli anni 70, li ha sposati tutti, tranne il Prodi-1 e il Conte-1). Ora, sul Conte-2 giallo-rosa, la situazione è la seguente. B. e i suoi house organ lo temono come la peste bubbonica, perché “di estrema sinistra, pauperista e giustizialista”: quindi ottimo. Repubblica spara a palle incatenate, con titoli da Padania (“Voto subito, ma c’è chi dice no”), da Giornale (“Crisi di un governo mai nato”) e da Libero (“Fumata nera, futuro grigio”) e manda in tv volti imbronciati che non fecero una piega sui patti scellerati tra Pd e B., ma il putribondo Conte non lo digeriscono proprio: quindi il Conte-2 ha ottime chance. Il Pd, a furia di dar retta agli amorevoli consigli di Repubblica sull’appoggio a Monti, la rielezione di Napolitano, i governi con B. & Verdini, il Sì al Referenzum e il No al dialogo col M5S, s’è dissanguato: ora, smettendo di seguirli, potrebbe persino riaversi. Salvini si sbraccia per rimettersi con Di Maio o votare, ergo va deluso; e fa di tutto per evitare il governo giallo-rosa, che quindi diventa priorità assoluta.

Poi purtroppo c’è Ferrara: estenuato da ben 14 mesi all’opposizione dopo 50 anni al governo, stravede per il Conte-2. Ma non si può avere tutto dalla vita. E le altre tre bussole parlano chiarissimo. E non si esclude l’eterogenesi dei fini. Persino B. e Salvini, nel 2016, salvarono la Costituzione a loro insaputa col No al Referenzum. E persino Renzi, nella crisi più pazza del mondo, s’è reso utile senza volerlo svegliando un Pd già rassegnato al voto e al trionfo salvinista. Naturalmente può darsi che il Conte-2 abbia vita anche più breve del Conte-1, che M5S e Pd passino il tempo a litigare, che la salsa aurora giallo-rosa improvvisata nei pochi giorni concessi dal Colle impazzisca al primo intoppo, che la cura emolliente di Conte non appiani le enormi differenze e diffidenze fra Di Maio e Zinga, che presto Renzi prenda le sue truppe e butti giù tutto (anche se sarà difficile che le truppe lo seguano nell’harakiri). Il rischio di resuscitare Salvini sarà sempre in agguato. Ma è, appunto, un rischio. La certezza è che basta il primo vagito del Conte-2 perché Salvini non conti più nulla e non se lo fili più nessuno. E, come diceva Bossi di B. ai tempi d’oro, “se lui piange, state allegri: vuol dire che non ha ancora trovato la chiave della cassaforte”.

Un complottista piccolo piccolo

di Daniela Ranieri | 28 AGOSTO 2019





Ricordate Alberto Sordi in Un borghese piccolo piccolo, quando supera la “prova della morte” per iscriversi alla Massoneria bevendo l’amaro Montenegro? Ecco, l’altra sera Salvini, in conferenza stampa dal Senato (si vede che hanno chiuso gli stabilimenti balneari), pareva proprio il modesto impiegato della fu gloriosa commedia all’italiana che incarna (e cagiona) il trapasso nel dramma nazionale, il piccolo uomo che si infila in qualcosa di molto più grande di lui senza poter tornare indietro e rivelandosi poi con qualche caratterizzante dettaglio ridicolo.

È difficile resistere al fascino del dettaglio da peracottaro dentro una dichiarazione alla nazione annunciata in pompa magna e poi rivelatasi un guazzabuglio di frasi sconnesse, passivo-aggressività, sindrome del complotto e pure del bunker (sempre, però, in chiave inconsapevolmente parodistica: una specie di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini interpretato da Renato Pozzetto). Cercate il video sulla sua pagina Facebook, tra le cubiste che sculettano sull’inno di Mameli, le foto della bambina che gli è figlia sovraesposta senza cautela, cocomeri, tunisini scippatori, nigeriani spacciatori, tramonti sul cupolone e frasette romantiche: difficile dimenticare che l’uomo che esordisce in diretta rivendicando “Dignità, onore, coerenza” è lo stesso che due giorni prima di sbroccare, con l’annuncio della sfiducia a Conte, aveva incassato la fiducia sul suo decreto cosiddetto Sicurezza bis (quanto alla dignità, considerando che l’ultima conferenza stampa è stata fatta in bermuda dall’area aperitivi del Papeete Beach, si sono fatti passi da gigante).

È difficile, si diceva, sottrarsi all’ipnosi delle singole frasi, anche perché, deo gratias, dopo appena 20 giorni, mentre poco lontano si sta formando un nuovo governo, si apprendono per la prima volta i famosi “no” con cui il M5S avrebbe esasperato Salvini tanto da indurlo a rompere, e sarebbero i no su “giustizia, autonomia” e un generico “riforme”. Difficile non scrivere una satira (Giovenale: “Difficile est satira non scribere”) sui due capigruppo, di Camera e Senato, ritti ai suoi lati come due chierichetti, che fanno sì con la testa come a dare ad intendere che Salvini la sa lunga, che c’è tutta una strategia sua che sta seguendo, tutta una sua missione di salvatore della Patria insidiata da africani, sostituzione etnica, Renzi, Boschi, banche… bah.

“È un classico ribaltone all’italiana”, dice l’arcitaliano che ha ribaltato tutto; “non stiamo facendo appelli alle piazze”, aggiunge lodevolmente, non fosse che otto giorni fa aveva detto: “Tenete il telefono acceso. Perché se ci sarà da scendere in piazza per salvare l’Italia, la libertà e la democrazia ci saremo”. “È un tradimento della volontà popolare”, insiste, ben diversa da quella che ha assegnato a lui il 17% degli unici volti validi in democrazia per comporre i Parlamenti e dunque i governi, a meno che Salvini non consideri validi i like e i cuoricini sui social, mai così numerosi come a luglio.

“Abbiamo smascherato un giochino che qualcuno covava da tempo”, e qui siamo in presenza di un’inversione spazio-temporale, visto che semmai il giochino tra M5S e Pd è posteriore alla sua mattana, dunque è un buco nero logico o hysteron proteron, tipo il “Moriamo e lanciamoci in mezzo alle armi” dell’Eneide. Chi ha fregato chi, in questa storia? Che Renzi stia “cercando di rientrare dalla finestra”, ha ragione Salvini, è fin troppo evidente (del resto quello Renzi fa, da tre anni a questa parte). Ma mentre Salvini “governava” dalla sagra del lampredotto, Renzi era in giro a fare conferenze (pare pagate: incredibile quanto masochismo vi sia al mondo), e adesso, più che fare un governo (da cui si tiene fuori), pare volerlo capitalizzare, per avere il tempo di costruirsi la sua creaturina e perdere in proprio e non più in franchising.

Ma allargando lo zoom sul messaggio alla Nazione, pieno di “onore” e altri paroloni di scimmiottata fascità, pare evidente come Salvini sia stato toccato dal demone spietato che ha bruciato tutti i perdenti. Uno che dopo aver infranto tutto il frangibile, giocando con le Istituzioni come a Candy Crush, tenta prima una riunione con il fantasma di Berlusconi per rifare il centrodestra (tradotto: annettersi un 6% di voti), poi torna da Di Maio mendicando una riedizione del governo appena abbattuto, poi grida al complotto (precedente, dunque ontologicamente impossibile) di una conventio ad excludendum successiva, è ormai un eroe caduto dal suo piedistallo (che per lui è la consolle da dj, vabbè).

Si ravvisarono del resto segni del declino durante la sfiducia in Senato, quando concluse berlusconianamente (ma anche renzianamente), “Amor vincit omnia”, traducendolo “l’amore vince sempre”, e non “tutto”; nel quale tutto, ricorda Virgilio, è ricompresa la cupidigia, la sete di potere, l’ambizione e non solo il senno

Vicepremier o niente”. Le condizioni di Di Maio a Conte e Zingaretti


Prima lo stop, poi la ripresa - Altri ostacoli nella trattativa per la nuova maggioranza: il segretario Pd vuole posti di peso, il leader 5 Stelle insiste per il ruolo a palazzo Chigi

di Luca De Carolis e Wanda Marra | 28 AGOSTO 2019





La via verso il governo che va fatto per forza adesso è una partita a due. Con un terzo che sbatte i pugni e tiene il punto perché terzo non vuole essere e soprattutto diventare. Però le mosse nella partita tra Pd e Cinque Stelle ora le muovono innanzitutto loro, Giuseppe Conte, il premier dimissionario che a Palazzo Chigi vuole e deve restare, e Nicola Zingaretti, il segretario del Pd che l’esecutivo giallorosso non lo avrebbe mai fatto e che adesso comunque non vuole entrarci.

Poi c’è Luigi Di Maio, il vicepremier che ripete di voler rimanere tale per non essere tagliato fuori dai giochi e lo ha già detto in tutti i modi nella prima riunione vera, in quelle oltre quattro ore a Palazzo Chigi tra lunedì e martedì. Così Conte sta provando a (ri)mediare. “Il presidente ritiene che avere due vice agevolerebbe il suo essere figura terza tra i due partiti” spiegano con sillabe caute dalla presidenza del Consiglio. Insomma, meglio ripetere la formula già usata dal governo gialloverde. Ma per Zingaretti non si può fare, non si può cedere. A suo dire il Movimento ha già indicato il premier, l’avvocato che rivendica la sua terzietà ma che è pur sempre stato “scovato” dal M5S. E poi proprio Di Maio resterà comunque nel governo, forse come ministro della Difesa.

Se non sarà “discontinuità”, la parola che il segretario ripete da giorni, almeno deve essere incetta di posti di peso per i dem. Quindi un solo vicepremier, del Pd (Dario Franceschini) e ministri dem di peso all’Economia, agli Esteri e all’Interno. Questo chiede Zingaretti lunedì notte a Chigi: da dirigente che viene dal Pci si muove secondo i suoi codici. “Presidente, le ho portato le nostre rose per i vari incarichi” spiega a Conte, e il segretario porge al premier alcuni fogli con tre nomi per ruolo. Di Maio invece non ha pezzi di carta ma due obiettivi in testa, quello del vicepremier e il Viminale, ruolo che non chiede in via diretta nel vertice notturno ma che ha invocato a margine del tavolo. Ma la strada è in salita. Conte interviene due o tre volte, tenta di smussare gli angoli, ma dopo l’una aggiorna la seduta al giorno dopo, con una promessa: “Tutti rimarrete soddisfatti, lo garantisco, gestirò io tutto”. L’avvocato si pone nei panni della figura apicale. Non abbastanza però, per il Pd. Il clima è pesante. Tanto che la nuova riunione fissata per le 11 di ieri salta, sotto il peso dei reciproci veti. E anche della guerra di comunicazione: se dal Pd raccontano che Di Maio vuole tutto e ha chiesto tutto (il Viminale) e il problema è lui, dai Cinque Stelle sostengono che dal Nazareno non hanno ancora ufficializzato la scelta di Giuseppe Conte. La direzione dem, prevista ieri pomeriggio, viene riaggiornata a stamattina: nessuno è veramente convinto che l’accordo salterà, ma nessuno sa come ci si arriverà. “Un bel pasticcio”, dicono da più parti nei Democratici.

Alle 10 e 30 di ieri, arriva la prima telefonata tra il segretario del Pd e l’avvocato: cioè parte il filo diretto tra i due. E dai dem partono le richieste esplicite a Conte: “Prenditi tu la responsabilità della trattativa, togli dal tavolo Di Maio”. Ma anche nel gruppo parlamentare del M5S c’è nervosismo: “L’accordo va fatto, e Luigi lo deve capire”. Un segnale deve arrivare entro le 16, quando i big dem si riuniranno al Nazareno. Lo dice apertamente il capogruppo alla Camera Graziano Delrio: “Non è naufragato nulla, è inspiegabile l’annullamento della riunione di oggi da parte del M5s”. Attorno alle 14, Delrio cammina per una Montecitorio semi-vuota. E ripete il concetto: “Serve che Conte prenda l’iniziativa, e in fretta”. E d’altronde, “sul premier non c’è nessun veto, noi continuiamo a lavorare sui temi e attendiamo un segnale dall’altra parte”. Ma l’altra parte, cioè Di Maio, è nervosa. Dai vertici lo dicono sottovoce ma dritto: “Ci aspettavamo che Conte si dimostrasse un po’ più vicino al Movimento”. Partono telefonate incrociate tra i rispettivi staff. E da Palazzo Chigi fanno la precisazione che il vicepremier pretendeva: “In presenza di Conte non è mai stata avanzata la richiesta del Viminale per Di Maio”. È la tregua, e dal M5s mandano segnali di pace: “Bene la chiarezza fatta dalla presidenza del Consiglio, al contempo accogliamo positivamente le parole di apertura di alcuni esponenti del Pd sul ruolo di Conte: sì a un dialogo su programmi e su temi”. Pare la nota che potrebbe sbloccare quasi tutto. Ma il nodo principale rimane, Di Maio vuole restare vicepremier. E non sente ragioni. Zingaretti e Conte si sentono ancora, con il segretario dem che chiede al premier di risolvere la grana. Mentre il Pd lo ripete sulle agenzie: “Di Maio vuole ancora quel ruolo”.

E nei 5Stelle la prendono male. I capigruppo delle rispettive parti s’incontrano ugualmente alla Camera. Al termine i 5Stelle Patuanelli e D’Uva parlano di “buon clima”. Ma dai vertici del Movimento raccontano una verità diversa. E accusano: “I dem hanno manifestato riserve sul blocco degli inceneritori e delle trivellazioni. Hanno presentato un documento senza riferimenti alla revoca delle concessioni autostradali, alla riforma della giustizia e al conflitto d’interesse. Eppure hanno avuto 20 anni per fare certe riforme”. Ma non finisce qui, assicurano: “Anche sul taglio dei parlamentari sono stati morbidi, ma va fatto entro settembre”. È un segnare la distanza, mentre i capigruppo a 5Stelle precisano: “Andiamo a riferire al nostro capo politico, si parla con lui”. Cioè con Di Maio. E non con qualcun altro. Magari Conte, il premier che dovrebbe fare un governo

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Eniente. Sono tornati. Come chi? Ma gli animisti finanziari, quelli che, dicendosi democratici (e magari #antifa), venerano il dio detto “I Mercati” e guardano l’andare e venire dello spread sui titoli di Stato come un tempo i loro antenati le interiora degli animali: guardano, guardano e alla fine ne traggono auspici per il futuro. Ora, i rendimenti sui Btp calano da fine maggio-inizio giugno: un animista finanziario (non #antifa) avrebbe potuto dire che “I Mercati” era felice per la vittoria di Salvini alle Europee. Siccome, però, gli interessi sui Btp hanno continuato a scendere anche ora (ma “I Mercati” non odia l’incertezza?) si dice invece che quell’imperscrutabile divinità è felice per l’estromissione di Salvini dal governo e l’arrivo dei buoni. E vabbè, se non lo fanno gli animisti ci pensiamo noi a mandare tanti saluti a Mario Draghi, alle sue mezze parole sul prossimo Quantitative easing (ci si vede il 12 settembre), alla discrezionalità con cui la sua Bce, reinvestendo la liquidità di quello vecchio, interviene su “I Mercati” per coprire (oggi) o scoprire (maggio 2018) le operazioni politiche a seconda che siano o meno di suo gradimento. Un saluto anche per “l’anti-sistema” Donald Trump, che benedice “Giuseppi Conte” come un Donald Tusk qualunque e si augura la sua permanenza a Palazzo Chigi coi democratici: l’establishment si è chiuso, viva i giallorosé. Non si sa se è una buona notizia, però una cosa va detta: Mattè, t’hanno rimasto solo…

Le capriole dei giornali di destra

di Massimo Fini | 28 AGOSTO 2019





La formazione del governo 5 Stelle-Pd, che mi si consenta, pardon mi si permetta, io avevo previsto (“Il Pd ammetta l’errore: vada al governo col M5S”, Il Fatto, 9.8.19) prima ancora che Matteo Salvini desse la spallata decisiva, con un autentico autodafé, al proprio esecutivo in cui svolazzava libero e felice da mane a sera, ha fatto letteralmente impazzire i giornali che sarebbe offensivo per la destra, che è o almeno è stata una cosa seria, definire di destra.

Lasciamo perdere l’aggettivazione normalmente sobria di questi giornali (“L’orrendo governo giallorosso”, La Verità; “Un esecutivo di stolti”, Feltri, Libero; “Non c’è pace fra i cretinetti”, sempre Feltri) e concentriamoci solo su alcune delle acrobatiche capriole, da veri saltimbanchi, cui sono stati costretti. Scrive Feltri che il nuovo esecutivo “bacerà le pantofole ai fessi dell’Europa”. Ma come, i 5Stelle non erano stati accusati di antieuropeismo e di voler addirittura uscire dall’euro, tanto che Paolo Savona, indicato da Luigi Di Maio come ministro dell’Economia, fu costretto a rimettere il mandato?

“Nasce il governo più impopolare della storia”, Franco Bechis sul Tempo. Ma come, l’attuale presidente designato, succeduto a se stesso, non era nei sondaggi il più popolare dei politici italiani, più dello stesso popolarissimo Salvini?

“Il governo più a sinistra della storia della Repubblica”, scrive Sallusti aggiungendo con accezione negativa che “non il popolo ma il Parlamento è sovrano”. Ma come, in queste settimane non hanno insistito tutti, ma proprio tutti, sulla “centralità” del Parlamento? Che poi in linea generale questa affermazione sia vera e cioè che nelle democrazie parlamentari il popolo non conti nulla (io l’ho scritto in Sudditi. Manifesto contro la Democrazia) vale però per questo governo come per quello precedente come per tutti i governi che si sono succeduti dalla nascita della Repubblica. È troppo comodo, troppo facile, accorgersene quando si viene sconfitti e prendere il sistema per buono quando si è vincenti. “Perdenti al governo”, Il Giornale. Per la verità i “perdenti al governo” erano quelli di prima, perché ci era andata la Lega che aveva il 17 per cento contro il 18,7 del Pd. Ora al governo ci sono i due partiti usciti vincenti dalle ultime elezioni, i 5Stelle con il 32,7 per cento e il Pd appunto con il 18,7 per cento. Che cosa c’è di strano, che cosa c’è di scandaloso, sempre ragionando in termini democratici, se i due primi partiti si mettono insieme per governare? In Germania si sono fatte grosse koalition tra l’Spd socialista e il partito centrista di Angela Merkel senza che nessuno ululasse all’“inciucio”.

Matteo Salvini, come già prima Renzi, si è fatto ubriacare dalla vittoria nelle elezioni europee, ma purtroppo per lui, per i suoi seguaci, per i suoi sgomenti sostenitori mediatici, in Italia, allo stato, valgono le elezioni politiche italiane.

L’“orrendo governo”, mi spiace per i “perdenti”, durerà sino alla conclusione della legislatura. Sarebbe davvero pazzesco che 5Stelle e Pd ripetessero la disastrosa mossa di Salvini sfasciando il nuovo governo in qualche momento del suo percorso perché ciò significherebbe la loro fine politica, come ha segnato quella, almeno per il momento, di Salvini. Errare è umano, perseverare è diabolico

Sì alla Costituzione (da attuare), no al male minore

di Silvia Truzzi | 28 AGOSTO 2019





Ieri, su queste pagine, è stato pubblicato un bellissimo appello, che abbiamo preso molto sul serio anche perché firmato da alcuni amici – su tutti Tomaso Montanari e Francesco Pallante – che sono stati compagni di strada nella battaglia in difesa della Costituzione dal tentativo di sfregio per mano di Renzi. Il manifesto per il nuovo governo giallo-rosa (non diciamo giallo-rosso, non certo per non disturbare gli amici romanisti, ma perché di rosso al Pd è rimasta al massimo la vergogna) contiene spunti programmatici estremamente condivisibili. I dieci punti sono ispirati all’articolo 3 della Carta che tutela la persona e la sua dignità (tutti i cittadini hanno pari dignità sociale) e garantisce l’eguaglianza davanti alla legge senza distinzione di condizioni personali e sociali, razza, lingua religione e sesso (come volle in particolare Teresa Noce) e che al secondo comma impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che “limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (grazie a Teresa Mattei che, in accordo con altre costituenti, propose l’inserimento della locuzione ‘di fatto’).

Già solo il primo punto ci fa battere il cuore: “Legge elettorale proporzionale pura, perché è l’unica che faccia scattare tutte le garanzie previste dalla Costituzione”. Sottoscritto con dodici sottolineature (specie in caso di taglio dei parlamentari). Difesa dell’ambiente, dei beni pubblici, a partire dall’acqua e dalla città: “Unica Grande Opera la messa in sicurezza di territorio e patrimonio culturale”. Garantire l’autonomia della magistratura: mai come oggi è un imperativo, viste le minacce ripetute della vecchia (Berlusconi) e nuova (Salvini) destra; ricostruire la progressività fiscale; superare la precarietà, adottare il salario minimo e ripristinare l’articolo 18; rifinanziare il Fondo sanitario; abolire il reato di immigrazione clandestina, con abrogazione dei decreti Sicurezza; restituire scuola e università alla missione costituzionale. E poi ancora: centralità della donna come metro di un’intera politica di governo e lotta alla povertà.

Onestamente: è, sarebbe, un ottimo programma, e forse purtroppo anche un libro dei sogni (ci si domanda perché il Pd che con tanta fatica ha abolito l’articolo 18, dopo i vari tentativi di governi sulla carta più di destra, dovrebbe ora ripristinarlo). Sottolineando i limiti (contarli sarebbe stato troppo lungo) di M5S e Pd, l’appello spiega: “Non possiamo dire che c’è un pericolo fascista, e subito dopo annegare in quelle incomprensibili miserie di partito che hanno così tanto contribuito al discredito della politica e alla diffusa voglia del ritorno di un capo con pieni poteri”. Dunque il male minore. Ma il male minore è un concetto molto sfuggente e parecchio relativo. Una volta il babau era Berlusconi, adesso è Salvini. La falla nel ragionamento – estremamente regressivo – è che, avallando il tanto meglio tanto peggio, i partiti continueranno ad avere (la parabola del Pd è esemplare) la scusa per non essere migliori. Perché ogni male è il minore di un altro che ci si prefigura peggiore: e si può continuare all’infinito, non toccando mai davvero il fondo. Le urne sono uno spauracchio per molti: nemmeno noi vogliamo un ritorno delle destre (né vecchie né nuove, né liberali né d’ordine). Però il voto è una soluzione di cui una democrazia non può mai – mai – avere paura

L’Inter non è più pazza. Archiviato pure l’inno. Basta emozioni, ci vuole disciplina

di RQuotidiano | 28 AGOSTO 2019





Ammetto perché ne sono convinto: l’inno dell’Inter non era e non è uno dei migliori al mondo. Con un enorme però: era entrato nelle nostre vite, nelle nostre teste e nei nostri cuori. Eppure ora non va bene, archiviato, neanche spedito in pensione. Proprio addio. Perché? Non sono un nostalgico a prescindere, ma questo desiderio di archiviare ogni sentimento lo considero assolutamente dannoso, e anti-calcio: il pallone è in parte basato su sentimenti e dogma, mentre qui vogliono portare la razionalità che, per carità, in alcuni contesti va pure bene. Non sempre.
Luca D’Antonio

La citazione non è delle più eleganti e ce ne scusiamo, ma il commento che ci sorge spontaneo, a proposito della soppressione dell’inno “Pazza Inter” decisa dal club e messa in pratica lunedì sera in occasione di Inter-Lecce 4-0, è quello che Paolo Villaggio rese celebre ne “Il secondo tragico Fantozzi” quando, chiamato a giudicare il film “La corazzata Potemkin”, il rag. Fantozzi la definì per l’appunto “una cagata pazzesca” ricevendone in cambio una standing ovation impreziosita da 92 minuti di applausi e da un diretto al volto del sadico professore Guidobaldo Maria Riccardelli, responsabile della sevizia, spedito al tappeto. “Pazza Inter”, copyright Rosita Celentano, era (è) un bellissimo inno di calcio: fresco, allegro, coinvolgente, lontano dalle trite retoriche di peana consimili, un inno in cui il concetto di vittoria è appena accennato perché, appunto, l’Inter si ama a prescindere, per come Dio l’ha fatta, per le emozioni che da sempre regala, nel bene come nel male. “Amala! Pazza Inter amala! È una gioia infinita, che dura una vita, pazza Inter amala! Vivila! Questa storia vivila. Può durare una vita o una sola partita, pazza Inter amala!”.

L’inno più bello, orecchiabile ed educativo del calcio, l’inno che dal 2003 accompagna le partite dell’Inter e che ha scandito i giorni del trionfale e indimenticabile triplete 2010, è stato silenziato. Motivo: ad Antonio Conte, cresciuto alla scuola juventina dove il motto è “Vincere è la sola cosa che conta”, non piace. A lui non interessa una squadra pazza, interessa una squadra vincente. L’aveva detto in conferenza stampa, il giorno della presentazione, ed era sembrato un sinistro presagio. Invece era qualcosa di più. Era un cambio di dna, la nascita dell’Jnter. Se permettete, una cagata pazzesca.
Paolo Ziliani

Franceschini vs. Orlando. È sfida per il vicepremier


Nazareno - Nel partito si sgomita per trovare gli incastri sulle nomine “Zinga farà tutti felici”, tranne se stesso: la discontinuità non si vede

di Wanda Marra | 28 AGOSTO 2019





Andrea Orlando o Dario Franceschini vicepremier? Nella serata di ieri, pareva aver vinto il secondo. Che si sarebbe persino guadagnato la delega ai Rapporti con il Parlamento, perché “serve uno che riesca bene a guidare i processi”.

Per il vicesegretario del Pd, invece, si lavora al ministero dell’Interno. E poco importa che Marco Minniti, che quel posto lo sognava da quando l’ha lasciato, sia praticamente sparito dai radar. Troppi nemici, a partire dai renziani, troppe perplessità su una competizione a distanza con Matteo Salvini.

La battaglia si sposta dentro al Nazareno, dove lo stato maggiore del Pd si riunisce in pianta stabile da giorni. Ai tempi di Matteo Renzi la chiamavano war room, con Nicola Zingaretti si definisce “cabina di regia”. E se durante i primi giorni della crisi, il conclave democratico lavorava per elaborare la strategia per affrontare la trattativa con i Cinque Stelle, ora questa è immediatamente diventata interna.

Ieri con il segretario c’erano il presidente del partito Paolo Gentiloni, i due vicesegretari, Orlando e Paola De Micheli, i capigruppo Andrea Marcucci e Graziano Delrio e le due vicepresidenti dell’assemblea Debora Serracchiani e Anna Ascani.

Ma in questi giorni passano continuamente tutti. Franceschini non aveva nessuna intenzione di farsi da parte. D’altra parte per il governo con i Cinque Stelle ci sta lavorando praticamente dal 5 marzo del 2018.

Zingaretti avrebbe preferito Orlando (non a caso ieri nel tavolo con i Cinque Stelle sul programma nella delegazione è apparso Andrea Martella, da sempre fedelissimo del Guardasigilli). “Zingaretti riuscirà a accontentare entrambi”, raccontano nel partito. Meno se stesso, verrebbe da dire: nel governo, il segretario avrebbe voluto profili nuovi, gente non troppo compromessa con le gestioni precedenti. Non andrà a finire così: in troppi dentro al partito vedono l’operazione in corso come la possibilità di tornare al governo. Fino a qualche settimana fa, un miraggio. Però, la leadership di Zingaretti si fonda proprio sulla mediazione. E ieri nel partito definivano una vittoria il tramonto di Luigi Di Maio e il filo diretto stabilito con Giuseppe Conte.

Per tornare al Nazareno, si tengono alla larga Matteo Renzi, Luca Lotti e Maria Elena Boschi. A rappresentarli tutti c’è Marcucci, che negli scorsi giorni faceva la spola tra la scuola di politica dell’ex premier, a Lucca e il Quirinale. Renzi, però, non perde il filo: in questi giorni ha mantenuto il contatto con Zingaretti, assicurando lealtà e sostegno (“Nicola stai sereno”, non l’ha ancora detto, ma per i più è solo questione di tempo) e soprattutto ieri ha fatto intervenire Francesco Bonifazi. “Sono uno serio e responsabile. Credo al Governo Istituzionale. E mi va bene anche Conte. Ma se devo accettare Di Maio al Viminale, per me si può andare a votare subito”. ha twittato, tanto per ribadire che i renziani stanno sul carro del vincente.

La contesa tra Orlando e Franceschini copre quasi tutto il resto. E però, a ben guardare, di battaglie intestine ce ne sono pure altre. A partire da quella per il ministero alle Pari Opportunità. In corsa ci sono Lorenza Bonaccorsi, pupilla di Paolo Gentiloni, rimasta fuori dal Parlamento, Tommaso Cerno, entrato in quota Renzi e trea i primi a porgere la mano ai Cinque Stelle e pure Monica Cirinnà, che può vantare la battaglia per le unioni civili ai tempi di Renzi.

Mistero aleggia pure su un’altra figura: Gentiloni. Finito nel mirino di Renzi come quello che ha cercato di far saltare l’accordo, per lui si è parlato della guida della Farnesina (al momento improbabile) o di Bruxelles. Ma sul suo ruolo, pare che la decisione finale spetti a Sergio Mattarella. E Carlo Calenda prepara l’uscita: non parteciperà alla direzione Pd di oggi, come ha annunciato all’Ansa

 Luca De Carolis | 28 AGOSTO 2019





Il governo degli opposti è ancora un’ipotesi. Eppure parlamentari e dirigenti del Pd già telefonano, mandano sms, insomma si aggrappano ai Cinque Stelle: “Ora dobbiamo accordarci sulle Regionali, pensare a come fermare Salvini sui territori”. La politica non si ferma neppure un attimo, basta l’odore anche vago di urne e la possibilità di nuovi intrecci che magari potrebbero essere alleanze. Così ecco che già viene allo scoperto il deputato dem Walter Verini, commissario nell’Umbria dove si voterà a fine ottobre, dopo che la giunta dem è franata per i colpi dell’inchiesta giudiziaria sulla sanità locale: “Il dialogo con il M5S, a prescindere da quello che accade a Roma, è aperto”. Parla di accordi Verini, storico veltroniano, e lo fa scegliendo certe parole: “In Umbria non stiamo parlando di una trattativa tra partiti ma dell’incontro su un progetto civico-sociale avviato”. E l’aggettivo che vuole essere miccia è quello, civico.

Perché il Movimento che negava come lo sterco del demonio ogni ipotesi di alleanze, ma che ormai sta facendo saltare tutti i vecchi dogmi, ha aperto anche quella porta, con le nuove regole fatte votare sulla piattaforma web Rousseau lo scorso luglio. (Pochi) iscritti hanno detto sì “alla sperimentazione di alleanze con le liste civiche, solo in alcuni casi, su proposta del capo politico e comunque “da ratificare” con il voto online. Tradotto, Luigi Di Maio potrà scegliere dove e come fare accordi. Naturale quindi che il Pd ammicchi già a progetti civici, a liste magari senza simbolo di partito e con tanti esterni a diluirne la derivazione. Dopodiché c’è l’altro lato della politica, quello delle valutazioni.

Così non può stupire quanto sussurra una fonte di governo del Movimento: “Dovremo per forza porci il tema degli accordi a livello locale, ma come facciamo ad allearci con il Pd in Umbria e in Calabria con i guai giudiziari che ha avuto in quelle regioni?”. Obiezione comprensibile, visto che i dem umbri si sono ritrovati con il segretario regionale e un assessore arrestati e la governatrice Catiuscia Marini indagata. Mentre in Calabria, dove si voterà tra fine anno e l’inizio del 2020, il governatore del Pd Mario Oliverio è indagato per peculato, nell’ambito di un’inchiesta che il 5 agosto ha portato la Guardia di finanza di Catanzaro a sequestrargli oltre 90 mila euro. Non è proprio un viatico a rincorrersi, anche nel nome del no a Salvini. Però il tema c’è, tutto. Ed è un nodo che già preoccupa nell’Emilia Romagna dove si voterà a gennaio, una preda che la Lega già pregusta da mesi. Tanto che a inizio agosto ha già lanciato come candidata alla presidenza Lucia Borgonzoni, sottosegretaria bolognese alla Cultura.

Nel Pd dicono da settimane che una sconfitta elettorale nel fortino rosso potrebbe costare carissima al segretario Nicola Zingaretti. Prima che però si aprisse la partita dell’esecutivo giallorosso. Ma il rischio di schegge rovinose dalle urne resta, eccome. Per questo il governatore Stefano Bonaccini si è mosso da settimane, cercando di fiutare che aria tira nel Movimento. “Con il M5S il Pd ha molte meno differenze che con la Lega” gli hanno sentito dire. E poi i 5Stelle in Emilia hanno come figura apicale un veterano di peso nazionale come il bolognese Max Bugani. Il principale, dichiarato fautore dell’apertura alle liste civiche, e non può essere un dettaglio. Ma dalle parti della via Emilia è tutto un ribollire di umori e posizioni diverse.

Così la consigliera regionale del M5S Silvia Piccinini fa muro: “Sto sentendo in queste ore di un presunto patto di desistenza per le elezioni regionali, probabilmente proposto dal Pd. Mi sembra fuori da qualsiasi logica anche solo pensare di poter accettare una simile richiesta. E mi auguro non lo sarà”. Ma i confini della partita sono ancora più larghi, perché il sindaco di Parma è l’ex grillino Federico Pizzarotti, ormai lontano dal Movimento dopo anni di dissidenza passati a invocare democrazia interna e nuove regole. E pesa, Pizzarotti, con la sua lista Italia in Comune. Tanto che un mese e mezzo fa, Bonaccini ha pranzato con lui per gettare le basi di una coalizione di centrosinistra, con dentro la lista del sindaco e i Verdi. Logico chiedersi: il M5S potrebbe entrare in questa alleanza, e soprattutto Pizzarotti, nemico dei nemici di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, potrebbe mai accettare? “Molto difficile conoscendolo” dicono da Parma. Insomma, il gioco degli incastri appare arduo. Però mancano ancora mesi.

Sufficienti per provare quello che appare quasi impossibile, almeno in Emilia Romagna. Perché invece in un’altra regione dove si voterà nel 2020, la Liguria, la capogruppo del M5S Alice Salvatore, si è esposta qualche giorno fa sul Secolo XIX: “Se il dialogo con altre forze politiche è apertura sui temi e convergenza sugli obiettivi, si può fare, se è pura alleanza elettorale è poco serio”. E detto da Salvatore, vicinissima a Grillo, colpisce. Parecchio. Sullo sfondo i dubbi dell’europarlamentare Ignazio Corrao, già tra i referenti nazionali per gli Enti locali: “Non penso che alleanze di questo tipo tra noi e il Pd si possano fare, sui territori ci combattiamo da anni”. Nella voce un po’ di stanchezza, e poi un pensiero: “Poi, certo, se i dem facessero liste con persone perbene sarei contento, da cittadino”. E gli accordi sono comunque un’altra cosa